Verso Architetture Resilienti 1: Lezioni di Biologia

La parola ‘resilienza’ sta facendo il giro tra i progettisti ambientali e, in alcuni contesti, sta sostituendo un’altra parola popolare, ‘sostenibilità’. Non è possibile progettare in funzione di tutti gli eventi imprevedibili, ma è possibile assicurarsi che i nostri edifici e le città siano in grado di resistere meglio a queste calamità.

(Traduzione dall’originale: [www].metropolismag.com/Point-of-View/March-2013/Toward-Resilient-Architectures-1-Biology-Lessons/ - link alternativo: www.resilience.org/stories/2013-03-25/toward-resilient-architectures-i-biology-lessons/).

In questi giorni, la parola “resilienza” sta facendo il giro tra i progettisti ambientali. In alcuni contesti sta minacciando di sostituire un’altra parola popolare, “sostenibilità”. Ciò è in parte il riflesso di eventi importanti come l’uragano Sandy, che si aggiunge alla lista crescente di altri eventi dirompenti come gli tsunami, la siccità e le ondate di calore. Sappiamo che non possiamo progettare in funzione di tutti questi eventi imprevedibili, ma potremmo assicurarci che i nostri edifici e le città siano in grado di resistere meglio a queste calamità e di riprendersi in seguito. Ad una scala più ampia, dobbiamo essere in grado di resistere alle scosse del cambiamento climatico, alla distruzione e all’esaurimento delle risorse, e ad una serie di altre sfide crescenti per il benessere umano. Abbiamo bisogno di una progettazione più resiliente, non intesa come uno slogan alla moda, ma come una necessità per la nostra sopravvivenza a lungo termine.

Oltre ad essere una idea interessante, cos’è realmente la resilienza, in termini sostanziali? Quali insegnamenti noi progettisti possiamo applicare per raggiungerla? In particolare, cosa possiamo imparare dalla resilienza dei sistemi naturali? Molto, a quanto sembra.

Sistemi resilienti e non resilienti

Cominciamo col riconoscere che oggi abbiamo tecnologie incredibilmente complesse e sofisticate, dalle centrali elettriche, all’impiantistica edilizia, fino agli aereoplani. Queste tecnologie sono, in senso generale, meravigliosamente stabili all’interno dei loro parametri di progettazione. Questa è il tipo di stabilità che C. H. Holling, il pioniere della teoria della resilienza in ecologia, chiamava engineered resilience [resilienza “costruita”, nel senso di “prevista”, “intrinseca”, N.d.T.]. Ma spesso queste tecnologie non sono relilienti fuori dalle loro condizioni operative progettate. I problemi sorgono a causa delle conseguenze impreviste che accadono come “esternalità”, spesso con risultati disastrosi.

Alla sinsitra, una super-concentrazione di componenti; alla destra, una rete di nodi distribuita maggiormente resiliente. (Disegno di Nikos A. Salingaros)

Alla sinsitra, una super-concentrazione di componenti; alla destra, una rete di nodi distribuita maggiormente resiliente. (Disegno di Nikos A. Salingaros)

Un buon esempio è il gruppo reattore nucleare di Fukushima in Giappone. Per anni ha funzionato senza intoppi, producendo energia sicura per la sua regione, ed è stato un fulgido esempio di resilienza intrinseca. Ma non aveva quella che Holling chiamava resilienza ecologica, cioè la resistenza alle perturbazioni spesso caotiche che i sistemi ecologici devono sopportare. Una di queste perturbazioni caotiche è stato il terremoto e lo tsunami che hanno sommerso lo stabilimento nel 2010, provocando un crollo catastrofico. I reattori di Fukushima sono basati su un vecchio modello statunitense degli anni ‘60, dipendente da un sistema di raffreddamento di emergenza elettrico. Quando l’elettricità si è interrotta, compresi i generatori di backup, il sistema di controllo di emergenza è diventato inoperativo e il core del reattore si è fuso. E’ stato anche un errore (a posteriori) avere centralizzato la produzione di energia realizzando sei grandi reattori nucleari l’uno accanto all’altro.

Il problema con le perturbazioni caotiche è che sono intrinsecamente imprevedibili. In realtà possiamo prevedere (anche se poco) la probabilità di un terremoto e di uno tsunami relativamente in modo migliore rispetto ad altri fenomeni naturali. Pensate a come sarebbe difficile prevedere il tempo e il luogo di una collisione di asteroidi, o più difficile ancora, prepararci alle conseguenze. I fisici si riferiscono a questo tipo di caos come lontano dalla condizione di equilibrio. Questo è un problema che i progettisti stanno cominciando a prendere molto più seriamente, dal momento che abbiamo sempre più a che fare con gli eventi più bizzarri come l’uragano Sandy - in realtà una combinazione caotica di tre distinte condizioni meteorologiche che hanno devastato i Caraibi e la costa orientale degli Stati Uniti nel 2012.

Uragano Sandy nell’Ottobre 28, 2012. Courtesy LANCE MODIS Rapid Response Team at NASA GSFC

Uragano Sandy nell’Ottobre 28, 2012.
Courtesy LANCE MODIS Rapid Response Team at NASA GSFC

Come se non bastassero questi pericoli imprevisti, noi esseri umani stiamo contribuendo all’instabilità. Una complicazione ulteriore è che noi stessi siamo ora responsabili di gran parte del caos, attraverso la nostra sempre più complessa tecnologia e le sue interazioni e perturbazioni imprevedibili. Il cambiamento climatico è una conseguenza di tali perturbazioni, insieme alle infrastrutture complesse e instabili che abbiamo collocato in località costiere vulnerabili (infatti, l’infrastruttura tecnologica del Giappone è stata pesantemente danneggiata su un’area molto più ampia a causa dell’effetto “domino” caotico generato dal disastro di Fukushima). La nostra “intrusione” tecnologica nella biosfera ha spinto i sistemi naturali in condizioni che sono lontane dall’equilibrio - e, di conseguenza, le perturbazioni catastrofiche sono più vicine che mai.

Lezioni di Biologia

Che cosa possiamo imparare dai sistemi biologici? Sono incredibilmente complessi. Prendiamo, per esempio, la ricca complessità di una foresta pluviale. Questa genera interazioni complesse tra i molti miliardi di componenti. Eppure, molte foreste pluviali riescono a rimanere stabili nel corso di migliaia di anni, a dispetto di innumerevoli perturbazioni e “shock di sistema”. Possiamo comprendere e applicare le lezioni che ci forniscono le loro caratteristiche strutturali? Sembra che possiamo. Qui sono indicate quattro di queste lezioni, estratte da sistemi biologici distribuiti (non centralizzati) di cui parleremo più in dettaglio:

  1. Questi sistemi hanno una struttura inter-connessa a rete.
  2. Sono dotati di diversità e di ridondanza (un concetto totalmente diverso da “efficienza”).
  3. Mostrano un’ampia distribuzione di strutture attraverso le varie scale, comprese le più piccole scale.
  4. Hanno la capacità di auto-adattarsi e “auto-organizzarsi”. Questa capacità è in genere (ma non sempre) ottenuta attraverso l’uso di informazioni genetiche.
Mappa di Internet: una rete resiliente paradigmatica, in parte perché è ridondante ed indipendente dalla scala.
Immagine: The Opte Project/Wikimedia

Mappa di Internet: una rete resiliente paradigmatica, in parte perché è ridondante ed indipendente dalla scala.
Immagine: The Opte Project/Wikimedia

Internet è un familiare esempio umano di una struttura a rete inter-connessa. E’ stata inventata dai militari degli Stati Uniti per riuscire a fornire una comunicazione di dati resilienti anche in caso di attacco. Anche i sistemi biologici hanno strutture a rete collegate tra loro, come possiamo vedere per esempio nei distinti sistemi circolatori del sangue e ormonale nel corpo umano, o nel modello cerebrale delle connessioni tra neuroni. Il tessuto danneggiato entro certi limiti è di solito in grado di rigenerarsi, e i cervelli danneggiati sono spesso in grado di ri-imparare la conoscenza perduta e le competenze attraverso la costruzione di nuovi percorsi neurali alternativi. La natura interconnessa, sovrapposta e adattabile delle relazioni degli ecosistemi e dei metabolismi sembra essere la chiave per il loro funzionamento.

Concentrandosi sulla ridondanza, sulla diversità e sulla plasticità, gli esempi biologici contraddicono la nozione estremamente limitata di “efficienza” utilizzata nel pensiero meccanicistico. I nostri corpi hanno due reni, due polmoni, e due emisferi del cervello, uno dei quali può ancora funzionare quando l’altro è danneggiato o distrutto. Un ecosistema in genere ha molte specie diverse, una delle quali può essere persa senza distruggere l’intero ecosistema. Al contrario, una monocoltura agricola è altamente vulnerabile ad un solo parassita o ad un’altra minaccia. Le monocolture sono terribilmente fragili. Esse sono efficaci solo fino a quando le condizioni sono perfette, ma a rischio di fallimento catastrofico nel lungo termine (che è una buona descrizione del nostro generale stato attuale!).

Perché la distribuzione delle strutture attraverso le varie scale è così importante? Per prima cosa, è una forma di diversità. Al contrario, una concentrazione in poche scale (in particolare alle grandi scale) è più vulnerabile agli shock. Inoltre, le scale più piccole che compongono e sostengono le scale più grandi facilitano la rigenerazione e l’adattamento. Quando le piccole cellule di un organo più grande sono danneggiate, è facile per quel tessuto danneggiato crescere nuovamente - un po’ come riparare i piccoli mattoni di un muro danneggiato.

Distribuzione di elementi interconnessi tra loro attraverso diverse scale.
(Disegno di Nikos A. Salingaros)

Distribuzione di elementi interconnessi tra loro attraverso diverse scale.
(Disegno di Nikos A. Salingaros)

L’auto-organizzazione e l’auto-adattamento sono anche gli attributi centrali dei sistemi viventi e della loro evoluzione. Infatti, questa sorprendente capacità di auto-strutturazione è uno dei più importanti processi biologici. Come funziona? Sappiamo che richiede reti, diversità, e distribuzione di strutture alle diverse scale. Ma richiede anche la capacità di mantenersi e svilupparsi su modelli già esistenti, in modo che quelli possano gradualmente espandersi in modelli più complessi.

Spesso questo processo si sviluppa attraverso l’uso della memoria genetica. Strutture che codificano i modelli iniziali sono riutilizzate e ri-incorporate successivamente. L’esempio più familiare è, naturalmente, il DNA. La trasformazione evolutiva degli organismi attraverso il DNA ha gradualmente costruito un mondo che è passato da virus e batteri, fino ad organismi molto più complessi.

Applicare le lezioni ai progetti resilienti per l’uomo

Come possiamo applicare queste lezioni strutturali per creare città resilienti, e per migliorare le più piccole parti vulnerabili della città rendendoli resilienti? Sviluppando le idee dalla nostra precedente lista, le città resilienti devono avere le seguenti caratteristiche:

  1. Hanno reti interconnesse di percorsi e relazioni. Queste non sono separate in categorie ordinate di utilizzo, tipo o percorso, che le renderebbe vulnerabili durante un collasso.
  2. Hanno diversità e una ridondanza di attività, tipologie, obiettivi e popolazioni. Ci sono molti diversi tipi di persone che fanno cose diverse, ognuno dei quali potrebbe fornire la chiave per sopravvivere ad uno shock di sistema (che non può mai essere conosciuto in anticipo).
  3. Hanno un’ampia distribuzione di scale strutturali, dai più grandi modelli di pianificazione regionale ai dettagli più fini. Insieme ai punti (1) e (2) di cui sopra, queste strutture sono diverse, interconnesse e possono essere modificate in modo relativamente facile e localmente (in risposta alle mutevoli esigenze). Sono come piccoli mattoni di un edificio, facilmente riparabili se danneggiati (al contrario di grandi e costosi pannelli prefabbricati che devono essere sostituiti interamente).
  4. Come conseguenza del punto (3), esse (e le loro parti) sono in grado di organizzarsi e adattarsi in risposta alle mutevoli esigenze alle diverse scale spaziali e temporali, e in risposta l’una all’altra. Ovvero, esse sono in grado di “auto-organizzarsi”. Questo processo può accelerare attraverso gli scambi evolutivi e la trasformazione delle conoscenze e dei concetti tradizionali, in base a ciò che serve per soddisfare le esigenze degli esseri umani e l’ambiente naturale dal quale dipendono.

Le città resilienti si evolvono in un modo molto specifico. Esse si conservano e si basano su vecchi modelli o informazioni, e allo stesso tempo rispondono al cambiamento con l’aggiunta di nuovi adattamenti. Non creano quasi mai cose completamente nuove, e quasi sempre creano novità molto selettive solo se necessario. Qualsiasi cambiamento viene testato tramite selezione, cosi come i cambiamenti in un organismo in evoluzione sono selezionati in funzione di come l’organismo si comporta nel suo ambiente. Questo meccanismo esclude principalmente i cambiamenti più drastici e discontinui. Le città resilienti sono quindi “strutturalmente conservative” anche quando subiscono profonde trasformazioni strutturali.

In che modo questi elementi contribuiscono in pratica alle città resilienti, in un’epoca di esaurimento delle risorse e di cambiamento climatico? E’ facile vedere che una città con una rete di strade e di marciapiedi sarà più percorribile a piedi e meno auto-dipendente di una città con una rigida gerarchia top-down dei tipi di strada, incanalando tutto il traffico in un numero limitato di “collettori” e “arterie”. Allo stesso modo, una città progettata per funzionare con un mix di usi avrà più varietà e sarà in grado di adattarsi al cambiamento meglio di una città con “monoculture” rigidamente separate.

Un complesso sistema resiliente coordina una risposta multi-scala ad un disturbo su ogni singola scala. (Disegno di Nikos A. Salingaros)

Un complesso sistema resiliente coordina una risposta multi-scala ad un disturbo su ogni singola scala. (Disegno di Nikos A. Salingaros)

Una città con una ricca ed equilibrata diversità di scale, specialmente quelle che includono e incoraggiano soprattutto le scale a grana fine, sarà più facilmente riparabile e adattabile a nuovi usi. Potrà sopportare meglio le perturbazioni perché le sue risposte possono avvenire su ognuno e tutti i diversi livelli di scala. La città affronta una perturbazione definendone il “centro” ad una specifica scala, intorno alla quale strutturare una complessa risposta multi-scala. Ed è più probabile che sia in grado di auto-organizzarsi attorno a nuove attività economiche e nuove risorse, se e quando le vecchie risorse stanno per scarseggiare.

L’evoluzione delle città non resilienti

A che punto siamo oggi? Molte delle nostre città sono state (e sono tuttora) conformate su un modello di pianificazione urbanistica evolutasi in un’era in cui l’energia da combustibili fossili era economica e in cui era forte il fervore di una visione meccanicistica di separazione delle componenti. Il risultato è che, per molti aspetti, abbiamo un tipo di città rigida e non-elastica; un tipo che, nella migliore delle ipotesi, ha una “resilienza strutturale” rispetto ad un unico aspetto, ma certamente non una “resilienza ecologica”. La risposta è sia limitata sia costosa. Si consideri come il modello pervasivo di pianificazione urbanistica del 20° secolo è stato definito da questi criteri non-resilienti:

  1. Le città sono strutture “razionali” ad albero (top-down, “dendritiche”), non solo nelle strade e nei sentieri, ma anche nella distribuzione delle funzioni.
  2. L’“efficienza” richiede l’eliminazione delle ridondanze. La diversità è concettualmente disordinata. Il Modernismo richiede comparti visivamente puliti e ordinati, e raggruppamenti unificati, che privilegino la scala più grande.
  3. L’età della macchina detta i nostri limiti strutturali e tettonici. Secondo i teorici più influenti della città modernista, la meccanizzazione prende il comando (Giedion), l’ornamento è un crimine (Loos), e gli edifici più importanti sono grandi espressioni scultoree dell’arte (Le Corbusier, Gropius, et al.).
  4. Qualsiasi uso di “materiale genetico” del passato è una violazione dello spirito del tempo dell’età della macchina, e quindi può essere solo espressione di una politica reazionaria; non può essere tollerato. La novità e la neofilia devono essere elevate e privilegiate al di sopra di altre considerazioni progettuali. L’“evoluzione” strutturale può essere consentita solo all’interno di astratti discorsi sulla cultura visiva, in quanto valuta e giudica i bisogni umani in base a propri standard (specializzati, ideologici, estetizzanti).

Dal punto di vista della teoria della resilienza, tutto questo può essere visto come un efficace formula per la generazione di città non-resilienti. Non è un caso che i pionieri di queste città erano, infatti, evangelisti di una forma di industrializzazione altamente energetico-dipendente, in un momento in cui la comprensione di tali questioni era molto più primitiva di adesso.

Per esempio, è l’architetto Le Corbusier, uno tra i pensatori più influenti di tutta la pianificazione moderna, che scrive nel 1935, suggerendo un modello per l’espanzione moderna:

“Le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio in una direzione, sotto un albero di pino; anche la mia segretaria vivrà a 30 miglia di distanza da esso, nella direzione opposta, sotto un altro albero di pino. Avremo entrambi la nostra auto propria. Useremo le gomme, le superfici stradali e gli ingranaggi, consumeremo petrolio e benzina. Tutto questo avrà bisogno di una grande quantità di lavoro… sufficiente per tutti”.

Purtroppo, non è più sufficiente per tutti! Questa relativa breve età di abbondanza dei combustibili fossili - e l’architettura urbana non-resiliente che si è diffusa in tutto il mondo - sta rapidamente volgendo al termine. Dobbiamo essere preparati per ciò che deve venire dopo. Dal punto di vista della teoria della resilienza, le soluzioni non potranno essere delle facili correzioni tecnologiche, come molti ingenuamente credono. Ciò che serve è un’analisi più profonda e una ristrutturazione dell’intero sistema: non è una cosa facile da realizzare, dal momento che ciò non produce denaro a breve termine.

Post scriptum: una lezione dalla nostra evoluzione

Le persone sono trascinate dal presente, e lasciano sia il passato che il futuro fuori di mente. Anche nella nostra era satura di informazione, il passato è remoto e astratto - solo un altro set di immagini come qualsiasi film. E così ignoriamo da dove siamo venuti, e il percorso che ci ha portato qui nella nostra meravigliosa cultura tecnologica. Non siamo preparati per vedere dove dobbiamo andare. Per la nostra cultura tecno-consumistica, il domani non porterà sorprese.

Ma la nuova ricerca in antropologia, in antropogenesi e nella genetica suggerisce che noi esseri umani siamo, letteralmente, creature del cambiamento climatico. Grazie ad un meticoloso lavoro investigativo, ora sappiamo che 195 mila anni fa la nostra specie era sul punto di estinguersi - poco più di 1.000 sopravvissuti erano aggrappati alla costa dell’Africa meridionale, a causa di una mega-siccità che ha spazzato quel continente. La nostra logica reazione è stata diversificare, e sviluppare molte nuove fonti di cibo, così come nuove tecniche per il loro procacciamento: ami da pesca, punte, cestini, urne, e altre innovazioni. Probabilmente si è sviluppato un linguaggio più complesso, che ci ha permesso di coordinare strategie di caccia e di raccolta più sofisticate.

10.000 anni fa, sembra, ci siamo adattati ancora una volta ad una mini era glaciale, che ci ha spinto ad innovare con nuove tecniche agricole e nuove forme di insediamento intorno ad esse. Queste innovazioni sono emerse più o meno simultaneamente in molte parti del mondo allora scollegate tra loro, il che ci suggerisce che il clima è stato molto probabilmente la causa scatenante.

Ora ci troviamo di fronte al terzo grande adattamento della nostra storia al cambiamento climatico. Ma questa volta siamo noi stessi che lo abbiamo innescato con le nostre tecnologie. Se abbiamo intenzione di adattarci con successo, abbiamo bisogno di capire le opportunità per innovare ancora una volta, nel modo con cui progettiamo e usiamo la nostra tecnologia. Il nostro confortevole stile di vita (nel ricco Occidente, e tra quelle classi socioeconomiche che possono permettersi di copiarci) è significativamente meno resiliente di quanto la maggior parte delle persone vogliano ammettere, o addirittura osano pensare. Se abbiamo intenzione di continuare la nostra notevole e fortunata corsa come civiltà tecnologica, faremmo meglio a prendere a cuore gli insegnamenti della teoria della resilienza.

Riproduzione su richiesta
Ultima modifica: 25.09.2018
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